Il visual concept della scenografia di "Edward mani di forbice" ("Edward Scissorhands", r. di Tim Burton, 1990, USA) è basato sulla contrapposizione: ciò che appare orribile e pauroso è in realtà l’unico luogo vivo e ciò che appare lindo e grazioso è invece ipocrita e alienato. L’eroe positivo abita sopra una collinetta, in una casa gotica diroccata e oscura, tipica del genere horror Universal degli anni Trenta. Della cittadina in cui vive la gente "normale", invece, il film mette in rilievo l’ordine freddo e geometrico delle case, in cui tutti si muovono con una logica di gruppo, ma dove ognuno è profondamente solo.
"Il gabinetto del dottor Caligari" ("Das Cabinet des Dr. Caligari", r. di Robert Wiene, 1920, DE) è passato alla storia del cinema soprattutto per la scenografia, affidata a Hermann Warm. Insieme a due amici pittori e scenografi espressionisti – Walter Reimann e Walter Röhrig –, realizzò allestimenti irreali, fatti di ombre dipinte, linee sbilenche e arredi fuori misura. L’ambientazione è adatta a quello che sembra essere il visual concept del film: la storia narrata si rivelerà essere la proiezione angosciata e deformata di un pazzo. Da allora questo tipo di deformazione soggettiva della scenografia (spesso definita per l’appunto espressionista) è stata utilizzata per singole sequenze di fantasia che intendono rendere il punto di vista di chi sta vivendo un incubo angosciante.
La scenografia di "Blade runner" (r. di Ridley Scott, 1982, USA-HK) era un po’ in anticipo sui tempi, ma negli anni guadagnò un’influenza così potente da ancorare al suo particolare look la corrente letteraria e cinematografica del cyberpunk. Le fonti di ispirazione per l’architettura e la conformazione della città furono il film "Metropolis" e i fumetti del francese Moebius. La metropoli è immaginata gigantesca e senza confini. L’enorme sviluppo verticale (ispirato a Hong Kong) corrisponde a una rigida stratificazione sociale. Il traffico di mezzi e persone è incessante, mentre grandi schermi trasmettono pubblicità. È impossibile immaginarsi quella scenografia senza il concorso di una particolare illuminazione: in quel mondo non c’è mai il giorno, fasci di luce e insegne attraversano una permanente coltre di fumo. Qui le fonti di ispirazione sono l’illuminazione low key tipica del noir e una certa pittura, come il dipinto "I nottambuli" di Edward Hopper. Il visual concept è una città del futuro che in realtà richiama il passato, una sorta di retrofuturismo. Nelle strade e negli edifici, spesso battuti dalla pioggia, si respira un’atmosfera decadente, caliginosa, dark. La scena della città dall’alto è realizzata con un modellino che in realtà è piuttosto piccolo (4,5 metri), ma con prospettiva forzata. Nelle scene a terra il fumo, oltre a dare atmosfera, serve a nascondere l’assenza di sviluppo verticale sopra gli allestimenti che si affacciano sulla strada, a eccezione delle inquadrature in cui lo sfondo è dato da un matte painting. L’altezza degli interni che rappresentano il potere (la stazione di polizia, la sede della multinazionale) è, non a caso, notevole. Nell’appartamento del protagonista il soffitto invece è basso, nessuna luce centrale lo illumina, le fonti sono prevalentemente esterne e filtrano a fatica all’interno. La sua cucina è stipata di una gran quantità di oggetti in disordine, come il resto dell’appartamento.
Nei film di Ken Loach è l'ambiente sociale che influisce sul comportamento dei personaggi, dunque è la "fotografia" di quell'ambiente che deve apparire in capo alle scene. Si osservino la serie di inquadrature tratte dall'incipit di "Looks and Smiles" (1981, UK): esse "parlano" e introducono con il loro squallore postindustriale le storie che verranno raccontate. Il film non è mai uscito in Italia.
Ne "Il dottor Mabuse" ("Dr. Mabuse, der Spieler", r. di Fritz Lang, 1922, Germania) si possono riscontrare diverse tipologie di scenografi (merito dello scenografo e costumista Otto Hunte, lo stesso di "Metropolis"). Qui sono raccolte inquadrature tratte da quattro scene diverse. Nella prima viene ripreso l'arrivo ad un nascondiglio segreto di uno dei criminali legati a Mabuse. Il vicolo stretto e le linee poco rette, ricordano anche se non in maniera così marcata i tipici esterni espressionisti. Il ristorante dove cena il procuratore Wenk (seconda scena) richiama la pittura espressionista. L'appartamento della ricca e sofisticata contessa Told è arredata con cimeli e quadri che richiamano i vari movimenti artistici d'avanguardia europei. La sala da gioco (quarta scena) è in stile art decò.
L'arredamento della camera del cuoco in "Shining" ("The Shining", r. di Stanley Kubrick, 1980, USA, UK) è molto significativa. Due zoom out scoprono i due lati della stanza. Il desiderio kubrickiano di avere le fonti di illuminazione in campo, insieme all'attrazione per la simmetria, lo portano, poco realisticamente, a collocare ben quattro paralumi ai quattro angoli. Il dato significativo però sono i quadri alle pareti. Essi rimandano alla sua "negritudine". Il cuoco è un "nemico" dei "fantasmi del passato" dell'hotel. Grady, l'antico custode, lo apostrofa con le parole, pronunciate come insulti, di "cuoco, nero". L'unica persona che lo aiuterà, facendogli trovare un gatto delle nevi, sarà un altro nero (nella versione statunitense). I poster sottolineano dunque la sua orgogliosa appartenenza "etnica". Che non può essere ben vista dagli abitanti invisibili dell'Hotel, rappresentanti del vecchio ordine bianco.
In questa sequenza tratta da "Get Out" (r. di Jordan Peele, 2017, USA) si intrecciano due linee narrative: in una si presenta il protagonista (cominciando dalle sue fotografie, un po' come all'inizio de "La finestra sul cortile" di A. Hitchcock) e nella seconda mostrando l'arrivo della sua fidanzata. L'arredamento dell'appartamento del protagonista raccontano molto del personaggio: il suo mestiere (è fotografo), i suoi gusti (dolente, impegnato), i suoi tratti (è ordinato, è metodico, ha buon gusto).
In questa scena di "Cantando sotto la pioggia" ("Singin' in the Rain", r. di Stanley Donen e Gene Kelly, 1952, USA) i tre personaggi principali sono impegnati in un numero di danza che nel tipico stile di Kelly utilizza oggetti e arredi della scenografia per compiersi (gli impermeabili, il mobile bar e i divani).
Il Macgaffin è un termine semischerzoso che indica un oggetto che i protagonisti del film cercano affannosamente, ma la cui natura rimane fino alla fine sconosciuta. Gli spettatori non si domandano di che si tratti, dato che il loro interesse è concentrato sull'azione più che sull'oggetto in sé. Ad esempio: la statuetta de "Il mistero del falco" di John Huston. Un piccolo Macguffin si trova anche in "Pulp Fiction" di Quentin Tarantino: cosa c'è dentro la valigia che i due killer si portano sempre dietro? Si capisce che è qualcosa che splende, ma al pubblico non viene mostrato. Nella sequenza che segue, tratta dal film "Bella di giorno" ("Belle de jour" di Luis Buñuel, 1967, Francia e Italia) la protagonista, una moglie benestante che sceglie di fare la prostituta per alcune ore al giorno, si accompagna con un cliente cinese che le mostra una misteriosa scatola da cui proviene un ronzio. La prima prostituta si era rifiutata sdegnata di assecondarlo, la protagonista invece accetta ed è divertita da un campanello che richiama il suono presente in alcune sue fantasie. L'inserviente, poi, cerca di consolarla pensando che sia stata brutalizzata, lei invece inaspettatamente le risponde esausta, ma appagata. Questa sorta di Macguffin surreale, la scatola col ronzio, serve dunque a Buñuel per generalizzare l'attrazione per il proibito e il repellente che anima la protagonista, che non riesce a vivere una vita sessuale "normale" a causa, ci fa intendere l'autore in un'altra scena, di una violenza subita in tenera età.
La famiglia di Colin ha appena speso una quantità di soldi per loro inusitata in acquisti smodati, ma il momento culminante del loro delirio consumistico è l'arrivo del televisore. Il TOTALE DALL'ALTO aiuta a situare sul piano compositivo il piccolo oggetto al centro dell'attenzione. L'intento polemico dell'autore verso il potere alienante del mezzo televisivo è evidente. Colin si ritirerà in camera sua e brucerà la banconota che la madre gli aveva passato. Da "Gioventù, amore e rabbia" ("The Loneliness of the Long Distance Runner", r. di Tony Richardson, 1962, UK).
Ne "La sottile linea rossa" ("The Thin Red Line", r. di di Terrence Malick, USA, 1998) l'ambientazione non è un luogo fisico determinato, quanto piuttosto una metafora della natura e della vita allo stato primitivo. Le inquadrature, i movimenti di camera e i suoni sono scelti da Malick in modo da far risaltare l'ambiente e far sì che la violenza scatenata dalla battaglia si manifesti come uno sfregio scandaloso e insensato. Nella scena che segue, l'altezza ribassata della camera esalta la vegetazione, poi la camera si alza solo per mostrare la bellezza di un paesaggio che sovrasta sempre gli uomini. Una natura che li proteggerebbe nel suo seno se non fossero anche soldati. E quando decidono di attaccare, dopo che la linea del sole ha scoperto i colori vivaci delle coltivazioni, la guerra appare intimamente estranea alla natura e a questa duramente contrapposta. In un "normale" film di guerra, sarebbe stata la linea d'ombra a coprire il campo, una natura complice e premonitrice dei destini dell'uomo, accompagnata magari da una musica drammatica, invece che da note serene. E il volume della prima parte della scena sarebbe stato tenuto basso; invece il primo piani sonoro è occupato dal vento e dal frusciare dell'erba. Quando scoppia la battaglia le lunghe inquadrature fisse sono sostituite da una rapida carrellata laterale che fende la prateria.
In “Banditi a Orgosolo” (1961) il pastore sardo Michele, aiutato dal fratellino Giuseppe, sta scappando con le sue pecore dai carabinieri che lo credono complice di un omicidio che non ha commesso. La fuga ha spossato le pecore, ma la sera prima i due pastori si addormentano ancora speranzosi di raggiungere la pianura. La sequenza è aperta dal volo mattutino di un rapace. Giuseppe si sveglia quando la tragedia è compiuta: guarda il segnale premonitore che viene dal cielo, poi corre scoprendo una dopo l’altra le pecore in fin di vita. La scia di morte lo porta al fratello maggiore, che ha già preso atto della fine delle sue speranze, e si incammina verso il suo destino. Il punto di vista è, per tutta la sequenza, quella di Giuseppe, per cui, quando si alza, Michele è ripreso ripidamente dal basso, il che assegna alla sua sconfitta qualcosa di nobile. I due vengono inquadrati, scuri, come macchie sulla collina aspra, che richiama la natura contro la quale i pastori quotidianamente devono lottare, mentre si allontanano tra i corpi delle loro pecore il cui chiarore è esaltato dalla luce mattutina. Sopra di loro il rapace attende il suo momento. Nessun pianto, grida, sangue o dialoghi strappacuore: tutto è essenziale e terribile.
L'ambientazione non serve solo a contestualizzare una storia dal punto di vista del tempo e dello spazio. Si guardi la scena seguente, tratta da "I vitelloni" (regia di Federico Fellini, 1953, Italia). Il film narra di un gruppo di giovani impigriti dalla vita di provincia, che consumano le loro giornate senza prendere decisioni risolutive sulle proprie esistenze. Il racconto si sviluppa in gran parte per le vie della cittadina, ma non la scena che segue, che si svolge sulla spiaggia. Fellini esalta questa ambientazione riprendendo i personaggi prevalentemente in Campo lungo, oppure con tagli più vicini, ma con angolazioni di spalle o di profilo. Così i personaggi non "rubano" attenzione al paesaggio e il pubblico può immergersi nell'atmosfera del mare invernale, connettendosi emotivamente alla malinconia che, confusamente, i "vitelloni", di tanto in tanto, provano.
L'incipit di "Shining" ("The Shining", r. di Stanley Kubrick, 1980, USA, UK) è costituito apparentemente da uno schema di descrizione ambientale col pretesto di seguire l'auto del protagonista. In realtà la particolarità della realizzazione, insieme alle caratteristiche della musica, fanno sì che la descrizione ambientale acquisisca un carattere molto inquietante, nonostante il paesaggio, di per sé, non lo sia. La prima inquadratura è un movimento autonomo della camera, ovvero un movimento complesso privo di un pretesto: è un volo a filo d'acqua. Poi cominciano le carrellate aeree che seguono l'auto ma che si mantengono in Campo lunghissimo, senza mai avvicinarsi, come se spiassero da lontano. In una ripresa l'elicottero sfiora la strada e "lascia" l'auto, di nuovo con un movimento autonomo. Queste riprese comunicano l'impressione che esista una entità superiore, non benigna a giudicare dalla musica, che "sorveglia" l'arrivo del protagonista.