Dalla metà dell'Ottocento al 1997 Hong Kong è stata una colonia inglese che si estendeva su un'isola e alcuni territori della terraferma con una superficie pari alla provincia di Varese. Oggi è una regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Vi risiedono più di sette milioni di abitanti. Data l'estensione limitata del suo territorio, la sua densità è tra le più alte del mondo, il che ha favorito la costruzione di molti grattacieli che ne fanno la città più verticale tra quelle esistenti. Hong Kong è uno dei maggiori centri finanziari internazionali ed ha un reddito procapite tra i più alti nel mondo. Gran parte della sua popolazione è cinese di lingua cantonese.
Hong Kong mantiene una certa autonomia con proprie istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie che la Cina al momento del passaggio si è impegnata a rispettare. La gran parte della popolazione di Hong Kong però si oppone alle crescenti interferenze cinesi e ha dato vita negli ultimi anni a proteste di massa che sono state variamente represse.
Tra gli anni ‘960 e ‘980 Hong Kong è stata una delle capitali del cinema mondiale, e la sua vasta produzione era destinata, oltre che al limitato pubblico locale, al grande pubblico dell’Asia e della diaspora cinese negli Usa. La storia dell’industria del cinema di Hong Kong è stata per alcuni decenni la storia dei grandi studios oligopolisti le cui reti coprivano la maggior parte del continente asiatico, tutti tramontati alla fine degli anni ‘970. Ma a partire dagli anni ‘980 il cinema hongkonghese ha saputo subito rinnovarsi, con l’entrata in scena di una new wave estremamente innovativa che ha goduto di un grande successo internazionale, tanto da arrivare a esercitare una forte influenza anche sul cinema di Hollywood. Oggi il cinema di Hong Kong non vive più i fasti dei decenni d’oro e la produzione, dell’ordine delle centinaia di titoli all’anno nell’epoca di maggiore fioritura, è scesa ad alcune decine di film, ma ciò non impedisce l’uscita occasionale di alcune gemme. Il suo futuro però appare fosco, visto che sul territorio si sta abbattendo con tutta la sua forza la censura di Pechino, che fa del “patriottismo centralista” il metro di giudizio di tutto.
Già prima della Seconda guerra mondiale il cinema di Hong Kong si era contraddistinto per la sua specializzazione in generi spettacolari orientati a un pubblico popolare come quelli dell’opera cantonese e delle arti marziali, quest’ultimo un genere vietato nella Cina continentale sia sotto i nazionalisti prima della guerra sia successivamente sotto i comunisti guidati da Mao. Solo negli anni ‘960 però i grandi studios hongkonghesi sono riusciti ad affermarsi ampiamente anche al di fuori della colonia, cominciando a sfornare grandi quantità di titoli. Mentre le pellicole che mettevano in scena opere cantonesi rimanevano popolari tra il pubblico locale più in là con gli anni, presso il grande pubblico generale sia locale che internazionale hanno cominciato a registrare enormi successi i film di arti marziali. Questi ultimi si dividono in due tipologie prevalenti, quella dei film wuxia, cioè i film di cavalieri erranti spadaccini con ambientazioni fantasy, e quella del kung-fu, incentrata sui combattimenti mediante gli arti superiori e inferiori, con ambientazioni più realistiche. La produzione hongkonghese di film di arti marziali è sterminata, e spesso ripetitiva o di scarsa qualità, ma alcuni registi hanno saputo distinguersi per le loro peculiari capacità, grazie anche al sostegno tecnico offerto loro dai grandi studios come Shaw Brothers o Golden Harvest.
Il primo a tentare nuove strade è stato a cavallo degli anni ’960 e ‘970 Chang Cheh, con il suo culto dell’uomo macho solitario e della violenza, come in “The One-Armed Swordsman” (1967, nella clip il dramma dello spadaccino dopo avere subito l’amputazione di un braccio durante una lite) e nel suo seguito “The New One-Armed Swordsman” (1971).
Chor Yuen ha seguito una strada invece molto diversa, con il suo stilismo colorato e l’attenzione per l’elemento femminile. Per esempio in un classico come “Confessions of a Chinese Courtesan” del 1972 (nella clip la vendetta di Ai Nu dopo essere stata stuprata e costretta a prostituirsi) o in “The Sentimental Swordsman” del 1977 (nella clip un esempio delle raffinate messe in scena di Chor Yuen per lo studio Shaw Brothers).
Liu Chia-Lang è stato un grande maestro delle coreografie marziali in senso sia acrobatico che cromatico, come dimostrano ad esempio “The Martial Club” (1981, nella clip un balletto di kung-fu tra le strette pareti di un vicolo) e “The 8 Diagram Pole Fighter” (1984, nella clip un combattimento con aste e bambu).
Jackie Chan e Sammo Hung sono invece i due “re” del kung-fu grazie soprattutto alla loro carriera di attori, ma spesso anche di registi, in particolare nel caso del secondo. In alcune occasioni hanno anche lavorato in coppia. Il loro kung-fu è il più delle volte tinto di commedia dagli umori demenziali, come nel notissimo “Drunken Master” del 1978, interpretato da uno scatenato Jackie Chan (nella clip un’esaltazione della forza e dell’agilità del corpo maschile, ma con un tocco d’ironia finale), mentre Sammo Hung ha dato una delle sue migliori prove con “The Prodigal Son” (1981).
Il nome più noto a livello mondiale è tuttavia quello dell’attore Bruce Lee, diventato una leggenda anche per la sua morte ad appena 32 anni. Lee ha fatto del kung-fu un fenomeno mondiale, diventando un’ispirazione per le lotte di molti popoli del terzo mondo e per i neri degli Stati Uniti grazie al fatto di avere raffigurato con grande aggressività la lotta contro gli oppressori coloniali. Il suo film più emblematico è “Dalla Cina con furore” (diretto da Lo Wei nel 1972) pellicola nella quale, sullo sfondo della lotta contro i colonialisti giapponesi e i razzisti occidentali, la combattiva agilità dell’attore tocca il suo punto più alto. Nella clip il “piccolo uomo cinese” si ribella contro il razzismo britannico e giapponese.
Una manciata di anni prima dell’esplosione del fenomeno Bruce Lee un altro grande artista di Hong Kong aveva cominciato la sua opera di profondo rinnovamento del genere wuxia. Si tratta di King Hu, regista nato a Pechino ed emigrato con la famiglia a Hong Kong ancora ragazzino. Hu era un artista poliedrico, fortemente influenzato dalle coreografie e dalla musica dell’Opera di Pechino e capace di tessere incredibili trame di movimento e spigolose sonorità. I suoi film riescono a coniugare il crudo realismo del nuovo cinema wuxia degli anni ’60 con un radicale rinnovamento dell’uso degli elementi sovrannaturali tipico della vecchia tradizione di questo genere, guardando allo stesso tempo anche all’autorialità modernista europea. Inoltre King Hu ha reintrodotto nel genere una figura topica di questa tradizione, quella della donna cavaliere errante, forte quanto e spesso più dell’uomo. Imperdibili i suoi “Dragon Inn” (1967, nella prima clip una delle tipiche spadaccine di Kung Hu in azione), “A Touch of Zen” (1971, nella seconda clip alcuni momenti di una scena diventata di culto, il duello nel bosco di bambu), considerato da alcuni, non a torto, uno dei capolavori in assoluto del cinema mondiale, e “Raining in the Mountain” (1979, passato più volte su Fuori Orario con il titolo “Pioggia opportuna sulla montagna vuota”, nella terza clip la ricerca furtiva di un prezioso manoscritto in un monastero buddista). Molto belli anche “Legend of the Mountain” (1979, nella quarta clip l’effetto dell’alcol e di una musica ossessiva genera la vista di un fantasma) e “The Valiant Ones” (1975). Tutto contribuisce a farne film unici: le coreografie, la colonna sonora, le sceneggiature, i costumi, l’approccio filosofico.
Il tramonto economico dei grandi studios a fine anni ‘970 ha aperto la strada ai giovani registi della new wave hongkonghese, affermatisi all’inizio del decennio successivo. Alcuni di loro si sono dedicati a un cinema socialmente impegnato, ma altri hanno optato invece per un originale aggiornamento delle tradizioni di cinema popolare di cui era ricca la colonia, sia nel campo dell’action sia, ancora una volta, in quello del cinema di arti marziali.
Tra i primi si può citare Ann Hui e in particolare il suo “Ordinary Heroes” (1999), che ricostruisce in modo vivo e avvincente alcuni momenti delle lotte della sinistra rivoluzionaria di Hong Kong negli anni 1960-1970. Nella clip le lotte a sostegno dei “boat people”, immigrati a Hong Kong dalla Cina continentale, negli anni ‘970 sotto il regime coloniale britannico. Anche gli altri film della regista sono in massima parte da vedere, come ad esempio "A Simple Life", 2011.
Stanley Kwan ha colto da parte sua molto bene l’atmosfera fantasmatica che pervade la cultura di Hong Kong con pellicole come “Rouge” (1987), nel quale una prostituta degli anni 1930, Fleur, ricompare nella Hong Kong contemporanea alla ricerca del suo amato (nella clip il suo spaesamento), e “Center Stage” (1991), nel quale si ricostruisce la tragica vita di Ruan Lingyu, star del cinema shanghaiese degli anni ‘930. Nella seconda clip un momento della difficile vita professionale di Ruan Lingyu, diva degli anni ‘930 qui interpretata da una diva di oggi, Maggie Cheung.
Un altro dei registi più interessanti è Patrick Tam, che ha spaziato su vari generi, con risultati particolarmente stimolanti in “The Sword” (1980), film di arti marziali tradizionali interpretate secondo criteri moderni (nella clip un allucinato duello notturno, tra realtà e visione fantasmatica), e “After This Our Exile” (2006), ambientato in Malesia, struggente ritratto di un padre borderline e di un figlio al suo traino. Nella clip il padre scarica aggressivamente sul figlio l’incapacità di gestire la propria vita.
Il regista di Hong Kong che ha però ottenuto più successo nel mondo, grazie anche al suo raffinato e peculiare stile, è Wong Kar-Wai¸ la cui produzione è in generale di alto livello ma di cui va segnalato qui in particolare “Angeli perduti” (1995), un film complesso che ha al suo centro la figura di un sicario (nella clip il killer Wong Chi-Ming agisce e poi riflette sul proprio futuro), e “2046” (2004), un numero che nel film è rispettivamente il numero di una stanza d’albergo, il titolo di un romanzo in corso di scrittura e il nome di un luogo misterioso in cui nulla cambia. Ma nella realtà extradiegetica, il 2046 sarà l’ultimo anno prima della fatidica piena integrazione ufficiale di Hong Kong nella Repubblica Popolare Cinese, fissata per il 2047.
Fruit Chan è tra tutti questi registi quello che più ha scavato, con grande efficacia e senso dello spettacolo, nel tema dell’identità hongkonghese, della precarietà del suo presente e del suo futuro sotto la minaccia opprimente della Cina. Il suo “Made in Hong Kong” (1997) è un film quasi programmatico che urla la rabbia e la disperazione dei giovani nell’anno dello handover, cioè del passaggio di Hong Kong da colonia britannica a regione autonoma della Cina (nella clip il giovane protagonista, tra vendetta e futuro senza prospettive). In “Little Cheung” (1999) Chan torna invece alla vigilia dello handover del 1997 ritraendo la storia di amore tra due bambini, dei quali uno locale e l’altra immigrata dalla Cina continentale, nelle strade del quartiere popolare di Kowloon. Nella clip l’ultimo giorno insieme del piccolo Cheung e di Fan, mentre si prospetta il passaggio di Hong Kong alla Cina.
Tra i registi che invece hanno scelto di mettere in campo le proprie capacità innovatrici nell’ambito del cinema popolare svettano in particolare tre nomi.
Il primo è quello di John Woo, che ha coniugato il cinema hard-boiled con un pathos melodrammatico dalle sfumature omoerotiche. Le sue opere più riuscite sono i primi due episodi della serie “A Better Tomorrow” (1986-1987, nella clip Chow Yun-Fat, star del cinema action hongkonghese, in un suo classico ruolo) e, soprattutto, “The Killer” (1989). In queste pellicole i protagonisti lottano nel tentativo di cambiare il loro destino e di eternizzare i forti legami di solidarietà che li legano ai propri confratelli nel sogno di un futuro migliore, ma vanno incontro a un inevitabile vicolo cieco di morte. Nella clip situazione d’impasse tra due tipici duri del cinema di Hong Kong.
Il secondo nome è quello di Johnnie To, il quale oltre che nella veste di regista si è distinto anche con la sua società di produzione Milkyway. To è un maestro del cinema di genere action e/o thriller popolato da gangster, poliziotti corrotti e manovali del crimine, elementi che condisce spesso con buone dosi di humor e scene sapientamente coreografate. I suoi capolavori sono “The Mission” (1999), incentrato su un gruppo molto variegato di cinque guardie del corpo di un gangster (nella prima clip l'azione è coreografata in un centro commerciale), e “PTU” (2003), la storia di una notte che scorre frenetica lungo il filo conduttore di una pistola smarrita da un poliziotto corrotto. Ma sono numerosi gli altri i film di To che offrono allo spettatore divertimento e spunti di riflessione, da “Exiled” del 2006, ambientato a Macau (nella seconda clip il suono della voce di un bambino ferma lo scontro tra gangster di diverse fazioni) a “Election 2” (2006), sugli contri intergenerazionali tra i gruppi mafiosi.
Tsui Hark è un discepolo del già citato King Hu. Tsui Hark si contraddistingue per avere portato all’estremo sia la vertiginosità delle acrobazie marziali, sia la perfezione degli effetti speciali e delle tecniche di montaggio. Rispetto al più filosofico e rigoroso King Hu, Tsui Hark dà libero sfogo all’estro inventivo con immancabili punte di humor e i suoi personaggi sono più terreni e umani. Il regista ha dato il meglio di sé con “Once Upon a Time in China II” (1992), il secondo capitolo di una popolare serie di film nel quale il leggendario personaggio Weng Fei-Hung, che nella realtà era stato il capostipite della scuola di kung-fu cantonese (interpretato qui da un eccelso Jet Li), incontra a Hong Kong addirittura Sun Yat-Sen, il padre della repubblica cinese allora in esilio nella colonia. Nella clip Jet Li combatte usando un ombrello, che diventerà poi nella realtà l’arma del movimento insurrezionalista hongkonghese nel 2019. L’altro suo capolavoro è “Green Snake” (1993), un esuberante fantasy tratto da un’antica leggenda cinese, nel quale Tsui da una parte pone in evidenza la potenza dell’elemento femminile, dall’altra decostruisce con humor ed efficacia il potere fallocratico. Nella seconda clip le due serpentesse si trasformano in donne, in un’atmosfera di tempestosa sensualità. Tsui è stato inoltre il produttore di un altro film fantasy di grande successo anche a livello internazionale e che reca chiaramente il suo marchio stilistico, “Storie di fantasmi cinesi” (1987), diretto da Ching Siu-Tung. Nella terza clip un’irriverente modernizzazione musicale della figura dello spadaccino taoista.
La spettacolarità è uno dei punti forti del cinema hongkonghese in generale e l’elenco dei film di arti marziali o di genere action che vale la pena di vedere è lunghissimo.
Qui ci si può limitare ad aggiungere il nome del regista Ringo Lam, alcuni dei cui thriller/action sono di ottima qualità spettacolare (per esempio la serie di film degli anni ‘80 “City on Fire”, “School on Fire” - nella clip la protagonista Chu Yuen-Fong dà fuoco alla scuola-, “Prison on Fire” e anche “Full Alert” del 1997), e quello di singoli film che hanno meritatamente ottenuto un grande successo di pubblico, come “Infernal Affairs” del 2002, su un poliziotto che si infiltra nei gruppi mafiosi delle triadi (titolo seguito poi da altri capitoli di minore valore e da un remake di Martin Scorsese nel 2006 con “The Departed”, interpretato da Leonardo Di Caprio). Nella clip il discorso del boss mafioso alle sue giovani reclute pronte per essere infiltrare nella polizia.
Hong Kong ha una lunga tradizione anche nel campo della commedia, il più delle volte dai toni demenziali e farseschi, come nel caso dei numerosi film di successo interpretati e/o diretti da Michael Hui dagli anni ‘970 all’inizio del nuovo millenio.
Più divertenti e stimolanti sono però alcune delle commedie di Pang Ho-cheung, come “Beyond Our Ken” (2004), storia del gioco di squadra tra la fidanzata e la ex di un pompiere. Oppure “AV” (2005), su un gruppo di studenti che decidono di girare un film porno nella speranza di sedurre così un’attrice (nella clip la presentazione alla pornostar giapponese della sceneggiatura del falso film hardcore da girare), e “Love in a Puff” (2010) che gioca con temi come i divieti di fumo, la vita degli impiegati d’ufficio e i flirt.
Nonostante il drastico calo dei film prodotti annualmente registrato nell’ultimo ventennio circa, e nonostante il sempre maggiore numero di talenti che hanno ceduto alle lusinghe dell’enorme mercato della Cina continentale accettando di farne la propria patria cinematografica, ogni tanto escono ancora film hongkonghesi indipendenti di valore.
Il film che più ha segnato la scena locale in era pre-pandemia è stato “Ten Years” (2015), opera collettiva a basso budget di alcuni giovani registi locali, con la quale in diversi episodi in chiave realistica, fantascientifica, noir o umoristica si dipinge il futuro distopico di una Hong Kong passata sotto il pieno controllo della Cina – un futuro che nel mondo reale è poi arrivato molto prima del previsto, ma in modo altrettanto distopico. Il film ha avuto un particolare successo tra i giovani locali, mentre è stato rigorosamente censurato in Cina. Nella clip giovani indipendentisti honkonghesi si scontrano con la polizia di Pechino in questo film del 2015 rivelatosi profetico.
Tra le opere indipendenti più recenti vanno segnalati infine infine “Fagara” (2019), sull’incontro di tre sorelle dopo la morte del padre, una di Hong Kong, l’altra trasferitasi nella Cina continentale e la terza residente a Taiwan (nella clip una delle sorelle cucina ricordando il padre cuoco morto da poco), e “My Prince Edward” (2020), un dramma incentrato sulle difficoltà che le donne cinesi, di Hong Kong o del continente, incontrano quando cercano di lottare con tradizioni passate, in questo caso quella del matrimonio per convenienza (nella clip le esitazioni di Lei Fong di fronte alla teatrale proposta di matrimonio di Edward).
Il futuro del cinema hongkonghese, visto dalla prospettiva di questo 2021, appare molto fosco visto che la Cina, dopo avere sconfitto il movimento insurrenzionale del 2019, sta soffocando nella censura ogni tradizione culturale realmente autoctona di Hong Kong e in primo luogo quella cinematografica, colonna portante dell’identità locale.