"A Chess Dispute" di Robert William Paul del 1903 mostra come a otto anni dall'invenzione del cinematografo, a livello di linguaggio, fosse già acquisito il concetto di fuori campo. Paul fu uno dei primi grandi pionieri del cinema e inventò, poco dopo i Lumière, un apparecchio simile al loro che, tra l'altro, fu utilizzato da Méliès per i suoi primi film. Nel film una partita a scacchi degenera presto in una rissa da commedia. L'effetto comico è ottenuto però non mostrando i giocatori, ma solo particolari e dettagli, cioè lasciando immaginare allo spettatore quel che accade fuori campo.
Nel finale di "Accattone" (r. di Pier Paolo Pasolini, 1961, Italia) la morte del protagonista è rappresentata con dei suoni fuori campo. In questo modo non viene data importanza all'incidente in sé (Accattone avrebbe potuto morire in altre occasioni nel corso del film e anche più stupidamente), ma alla morte. Per tutto il film il personaggio ha mostrato tutta la sua carica autodistruttiva e le sue ultime parole mostrano quanto la prospettiva della fine fosse quella che confusamente andava cercando.
Il climax de "Il disprezzo" ("Le Mépris", r. Jean-Luc Godard, 1963, FR, IT), dove muore la protagonista, è trattato con un procedimento di straniamento: non mostra l'incidente, ma si odono solo i suoni fuori campo. In compenso viene visualizzata la riga terminale del biglietto di addio della donna al marito.
In questa scena tratta da "La battaglia di Algeri" (di Gillo Pontecorvo, 1966, Italia) si rappresenta la decapitazione di un membro della resistenza algerina contro l'occupazione francese all'interno di un carcere. L'evento è di fondamentale importanza per il protagonista, Ali La Pointe, fino a quel momento piccolo criminale, poi dirigente della guerra di liberazione. Il linguaggio cinematografico è al servizio di questo intento drammaturgico. L'assassinio è ripreso sostanzialmente con Campi lunghi e non viene mostrato il momento in cui la ghigliottina entra in azione. Pontecorvo preferisce visualizzare le nude pareti della prigione mentre si ode fuori campo l'impatto della lama. In più viene utilizzata una musica anempatica cioè "indifferente" al narrato. Si tratta di scelte che "raffreddano" l'evento in sè, ma l'assenza di particolari impattanti stimola una lucida indignazione da parte del pubblico e la comprensione razionale delle emozioni che prova il protagonista, sottolineate dallo zoom sul Particolare degli occhi.
Nella scena tratta da "La recita" ("O Thiasos", r. di Thodoros Anghelopulos, 1975, Grecia) la compagnia teatrale sta per essere fucilata dai tedeschi invasori, ed è ripresa con una inquadratura fissa in Campo medio. Ad un certo punto fuori campo si consuma l'attacco dei partigiani e il loro prevalere, ma senza che vengano mai inquadrati, anzi: evitando di variare il quadro. Dice Anghelopulos: “C’è un film di Bergman che ha molto contato per me, 'Persona'. In questo film una scena interviene a operare sullo spazio esterno. Si è al di fuori di una casa. Le due donne entrano. La macchina da presa resta fuori: lo spazio è vuoto. Si sentono alcuni rumori. Poi la ragazza esce ed entra di nuovo. Lo spazio 'off' è qualcosa che io amo molto in questo film e da allora lo impiego sistematicamente.”
In "Tre colori - Film blu" ("Trois couleurs : Bleu", r. di Krzysztof Kieślowski, 1993, FR, Polonia, Svizzera) il plot point è collocato all'inizio, saltando l'usuale introduzione. L'incidente in cui muoiono il marito e la figlia della protagonista è rappresentato in modo assolutamente freddo e indiretto, eppure riesce lo stesso a colpire emotivamente. Si noti la ripresa ad altezza terra che mantiene a fuoco il Dettaglio dell'auto che causerà l'incidente, con la bambina che ritorna sfocata come se il suo destino fosse già predeterminato da quelle gocce di olio che colano. Si noti anche che l'incidente è solo "sentito" e si svolge fuori campo dato che la camera resta sul ragazzo. Una soluzione che sarà ripresa da Alejandro González Iñárritu in "21 grammi".
In questa puntata della prima stagione di “The Wire” (episodio 10, sceneggiatura di David Simon e regia di Brad Anderson, 2002, USA) Kima, una poliziotta sotto copertura, sta cercando di incastrare una banda di spacciatori mentre i suoi colleghi la seguono. In trappola però ci rimane lei. Regia e sceneggiatura, in modo molto accorto, “staccano” da lei quando comincia la sparatoria, così il dramma si consuma fuori campo: il pubblico può capire quel che accade solo attraverso il sonoro delle frasi concitate di Kima e dei colpi di pistola. Quando l’ellissi si chiude e i poliziotti localizzano l’auto cercando di soccorrere la loro collega, l’episodio si chiude senza che lo spettatore sappia se lei morirà o resterà in vita. Si tratta del cliffhanger, ovvero un punto della trama adatta a stimolare la nostra curiosità su quanto accadrà dopo. Il termine significa “appeso a una rupe”, perché le prime serie (quelle che si proiettavano al cinema all’epoca del muto) finivano spesso con l’eroina di turno sospesa nel vuoto in urlante attesa di un qualche eroe che l’andasse a salvare.