PARTHENOPE

regia di Paolo Sorrentino, IT, 2024


di Andrea Brio

Parthenope è il decimo lungometraggio di Paolo Sorrentino. Il nome di Sorrentino è ormai una garanzia per molti cinefili. Si tratta probabilmente del regista italiano contemporaneo più apprezzato nel mondo. Di più: Sorrentino è un cineasta in grado di sostenersi da solo, i suoi film non necessitano di una storia forte o di Star di grande richiamo internazionale per funzionare su scala globale (benché se ne sia comunque servito a più riprese). Il motivo sembrerebbe piuttosto semplice, addirittura banale; si considera Paolo Sorrentino un auteur nel senso più tradizionale del termine. Si dice che in ogni film che ha realizzato ciò che emerge è la sua particolare impronta, il suo stile caratteristico, la sua poetica, la ricorrenza dei temi, insomma, il suo mondo. Che Sorrentino sia un autore cinematografico con le carte in regola tutti sembrano d’accordo, e sotto certi aspetti autore lo è in quanto detiene il controllo totale, se non dell’impresa filmica nel suo complesso, almeno del processo creativo; egli scrive, dirige e coproduce i suoi film. Lavora più o meno sempre con gli stessi fidati collaboratori (lo sceneggiatore Umberto Contarello, il montatore Cristiano Travaglioli, la scenografa Carmine Guarino, il direttore della fotografia Luca Bigazzi recentemente sostituito da Daria D’Antonio) che assicurano ai suoi progetti un ritmo, un registro e un look inconfondibile e coerente da film a film. Sarebbe dunque poco utile non ammettere quello che è un dato di fatto; nessun regista italiano contemporaneo alla pari di Sorrentino può permettersi il lusso di essere equiparato ai grandi autori europei degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo per come concepisce i suoi lavori ma anche per come costruisce le sue drammaturgie; nel bergmaniano Le conseguenze dell’amore un uomo ricattato dalla criminalità organizzata viene a patti con i propri demoni; ne l’amico di famiglia un usuraio e un fanatico col mito del west che ricordano certi personaggi di Herzog devono fare i conti con le proprie illusioni; nell’eurofilm This must be the place una scapestrata rockstar che vuole vendicare suo padre si avventura negli Stati Uniti, ma come in The passenger di Antonioni e in Paris, Texas di Wenders il potenziale nucleo on the road cede il posto a un contemplativo e composto lirismo tutto ambientale. Il successo internazionale di Sorrentino si deve comunque a Il Divo, una satira ricca di humor nero incentrata sulla figura del presidente Giulio Andreotti interpretato da Toni Servillo, e soprattutto a La grande bellezza, pluripremiata parabola decadente ed estetizzante ambientata nella Roma contemporanea, in cui un maturo scrittore sul viale del tramonto (ancora una volta Toni Servillo) si rifugia nei ricordi e in futili passatempi mondani per fuggire la propria apatia. È questo un film spartiacque nella carriera del regista campano; da qui in poi i riferimenti cinematografici di Sorrentino si restringeranno, confluendo tutti in un’unica direzione, in un'unica figura totemica che lo stesso Sorrentino non esiterà a definire il suo principale punto di riferimento; Federico Fellini. Ricorrendo sempre più a fluidi movimenti a largo raggio della macchina da presa, ad immagini evocative al limite dell’artificio, a paesaggi onirici resi con gusto barocco e a volti caricaturali enfatizzati da giochi di luci e ombre, Sorrentino non si limita a citare il proprio maestro, lo emula.  E se il linguaggio dell’immagine restituisce questa impressione è comunque l’impianto drammaturgico a reggere l’operazione; La grande bellezza propone un nucleo narrativo molto simile a quello de La dolce vita, il successivo Youth - la giovinezza è il tentativo di ampliare il concept di 8 ½, e la nostalgica autobiografia del più recente È stata la mano di Dio segue l’esempio di Amarcord nel concepire un ritratto visionario del regista da giovane. 

1 A nostro giudizio, come vedremo, Sorrentino è certamente un autore ma in un senso tutto particolare; nell’accezione più spuria del termine. Egli è certamente pubblicizzato e guardato come si pubblicizza e si guarda un autore; non ha mai preteso di fare cinema per le masse, non ha mai realizzato film di genere, le sue drammaturgie sfuggono alla logica del consumo popolare ecc. Eppure nella sua filmografia non c’è alcuna traccia di originalità poiché, come vedremo, la sua poetica e la sua estetica è già appartenuta a qualcun altro.

Ma a questo punto della sua carriera cinematografica, Sorrentino non può più permettersi di limitarsi a scimmiottare il suo maestro, dovrebbe iniziare a fare il suo cinema. I più innocenti direbbero che esaurito il fuoco felliniano potrebbe finalmente trovare la sua vera voce, i più maliziosi direbbero invece che se nella sua piena maturità ha perduto completamente quei vagiti di originalità presenti nei suoi primi film è perché una voce, in realtà, non ce l’ha. Parthenope è dunque un film problematico già prima di farsi. Problematico perché si pone cronologicamente alla fine di un lungo processo evolutivo che riporterebbe il suo autore al punto di partenza. Con È stata la mano di Dio Sorrentino ha completamente esaurito le scorte citazionistiche in quanto ha realizzato con coscienza un pastiche felliniano su sé stesso; l’insistita simbiosi col suo maestro, il parlare di sé attraverso i modi di un altro, rappresentano un azzardo proprio perché l’emulazione non può più spingersi oltre. Se con La grande bellezza si poteva ancora essere indulgenti, dopo È stata la mano di Dio non si può più. Questo, come vedremo, il furbo Sorrentino deve averlo capito, ma anziché aspettare la giusta occasione sceglie di rifilarci Parthenope

Ma andiamo con ordine. Parthenope è una donna che porta il nome della sua città, la Napoli in cui è nato e cresciuto Sorrentino. Parthenope è anche una sirena; nasce in acqua; cresce in una lussuosa magione sul mare; dorme in un letto che sembra una conchiglia; fa l’amore sulla spiaggia. Parthenope, dunque, prima di essere una donna è un personaggio mitizzato, idealizzato. Ci piacerebbe poter definire i suoi tratti salienti ma non è che ne abbia molti. Diciamo che è attraente; lo è così tanto che per la prima mezz’ora di film ogni maschio che le sta intorno la desidera sessualmente. Lei però non si concede, non che non lo voglia, semplicemente Sorrentino rimanda sistematicamente il momento clou per prolungare l’attesa e ritardare il godimento spettatoriale. Sì, perché il primo atto di questo film è stato pensato e realizzato con il solo obiettivo di usare la protagonista come fonte di piacere visivo per la gioia e la soddisfazione di certo pubblico maschile. L’approccio scopofilo è evidente dalle tante soggettive che restituiscono la visione percettiva degli uomini che la circondano così come dai ripetuti sguardi che Parthenope lancia verso la macchina da presa mentre pronuncia frasi cariche di allusioni sessuali dirette implicitamente allo spettatore. Tra un flirt e l’altro Parthenope frequenta il corso di Antropologia del professor Marotta, severo e distaccato docente universitario. Tra i due si instaura un tacito rispetto alimentato anche da un quesito spinoso sul mestiere dell’antropologo lasciato momentaneamente in sospeso e la cui risposta sarà data soltanto in un momento successivo. Questo stato di cose si interrompe bruscamente una sera d’estate, quando Parthenope si concede a Sandrino, figlio della sua governante. La notizia getta nello sconforto il fratello Raimondo, anch’esso morbosamente attratto dalla protagonista, spingendolo al suicidio. La perdita del fratello determina i dubbi che affliggeranno Parthenope nel corso della sua vita e, dunque, anche nei successivi cento minuti di proiezione. È questo quindi l’incidente scatenante del film. Quando poi i genitori adottano nei suoi confronti un atteggiamento di chiusura ritenendola colpevole la ragazza naturalmente ci rimane male col risultato di sentirsi davvero responsabile dell’accaduto. A questo punto si potrebbe dire: bene, Parthenope è una donna insicura, vittima di un complesso di colpa che non si merita, straziata da un conflitto interiore indottole da una società profondamente ingiusta e maschilista, perché mai una donna dovrebbe trovarsi a suo agio in una simile situazione? Peccato che il film, nel suo complesso, non è affatto interessato a proporre un simile discorso, seppure ci siano tutti gli ingredienti obiettivi per esprimerlo. Ma un regista che per una buona mezz’ora oggettivizza la sua protagonista con tutti i mezzi che il cinema dispone come può concepire una simile tesi…? E infatti la strategia adottata da Sorrentino è tutt’altra. Evidentemente conscio di aver perso la bussola e di non riuscire a comprendere il materiale narrativo che gli è capitato tra le mani il nostro regista nonché sceneggiatore ha preferito proseguire con i mezzi che conosce bene noncurante del fatto che forse a questo punto avrebbe dovuto rinunciare a Parthenope e dedicarsi a un altro progetto. Così in men che non si dica la sua studentessa di Antropologia decide di mettere da parte gli studi e di trasformarsi in un’aspirante attrice, e con quale pretesto…? È piena di sensi di colpa ed è innegabilmente attraente. Naturalmente la trovata dell’attrice dura poco, giusto il tempo per mandarla un po' in giro per una Napoli decadente e degradata, ma suggestiva anche per la sua felliniana parvenza. Insomma, attraverso nessi causali che ricordano molto quelli dei cartoni animati Parthenope si ritrova la notte di capodanno in un covo di camorristi, e dopo un rapporto occasionale con uno di loro finisce per restare incinta salvo poi procurarsi un aborto. Chiusa questa infelice parentesi il film sembrerebbe tornare sui suoi passi; Parthenope, ormai adulta si è finalmente laureata diventando una brillante ricercatrice nonché assistente del professor Marotta. Ma ecco che entra in scena un nuovo personaggio; il cardinale Tesorone. Sciatto e corpulento, volgare e maldestro egli rappresenta inequivocabilmente il simbolo del degrado più assoluto attraverso il quale Parthenope deve passare per poter risanare le proprie ferite o più semplicemente per poter affermare di aver vissuto una vita piena… chi lo sa. Resta il fatto che una rivista le chiede un articolo sulla liquefazione del sangue di San Gennaro e lei si rivolge a Tesorone malgrado il professor Marotta tenti di dissuaderla. Così dopo aver partecipato alla messa viene trattenuta dal cardinale che la veste coi gioielli del tesoro spiegandole come la spiritualità sia una macchinazione divisa tra superstizione popolare e mondanità. Dopodiché i due fanno sesso. Chiusa parentesi. 

2 Per un approfondimento sulla scopofilia e sul piacere di guardare nella situazione cinematografica tradizionale si veda Veronica Pravadelli (a cura di), Laura Mulvey, Cinema e piacere visivo, Roma, Bulzoni Editore, 2013, p. 30-42.

Nel frattempo Marotta si prepara ad andare in pensione e suggerisce a Parthenope di sostenere un concorso a Trento per insegnare all'università locale. Prima di congedarsi però decide di presentarle suo figlio, un enorme essere con le fattezze di un neonato, evidentemente affetto da una rara malattia e da ritardo cognitivo. Solo a questo punto le confida qual è il compito di ogni buon antropologo: saper vedere. Insomma, alludendo a una formula altamente autocelebrativa (antropologia = cinema) Sorrentino vorrebbe davvero darci a intendere d’aver compreso il colore del mondo, il suo linguaggio, i suoi abitanti, la sua realtà. In altre parole, vorrebbe essere considerato un artista. Al di là dell'evidente narcisismo di fondo, quest'alta considerazione che ha di sé e che non esita a sbandierare pubblicamente attraverso il suo fastidiosissimo film non è semplicemente il frutto di una mente poco umile bensì il prevedibile risultato di chi è arrivato al capolinea del proprio percorso professionale: “era già tutto previsto” canta il disco di Riccardo Cocciante in una sequenza del film; che Sorrentino sotto sotto stia cercando di dirci, se non la verità sul mondo, almeno quella su se stesso…?