di Andrea Brio
La Feminist film theory nasce e si sviluppa come un nuovo spazio di indagine formatosi dall’interazione di fenomeni socioculturali apparentemente non connessi tra loro: la mobilitazione politica delle donne e il suo affermarsi in quanto sapere; il cinema sperimentale, ovvero quel tipo di produzione filmica che si pone fuori e/o contro il modello promosso da Hollywood; l’affermarsi di una controcultura fortemente connotata in senso europeo che si definisce post-strutturalista e che vede il suo campo d’azione entro l’ambito accademico. Sviluppatasi principalmente nei paesi anglosassoni (Regno Unito, Stati Uniti e infine Australia) a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la Feminist film theory pone al centro del proprio oggetto privilegiato d’indagine il concetto di sguardo, il rapporto schermo/spettatore e la decostruzione dei meccanismi stessi della visione.
1. Il nuovo femminismo, il cinema strutturalista, il decostruzionismo
Come fenomeno socioculturale e politico il cosiddetto nuovo femminismo si batteva per l’affermazione dei diritti delle donne prefiggendosi l’obiettivo di eliminare lo stereotipo tradizionalmente maschilista che riduceva la complessa identità della donna ad un unico valore, quello della femminilità. Negli anni della contestazione giovanile le battaglie delle femministe europee ed americane si intersecarono con i gruppi di protesta studenteschi. Non sempre, tuttavia, i due movimenti operarono in completa sinergia; il femminismo cosiddetto radicale nacque sulla scia della denuncia, da parte delle donne, di forme di discriminazione e di emarginazione che si perpetravano anche all’interno dei gruppi di contestazione. La riflessione sui modelli culturali alla base del rapporto uomo-donna portò molte femministe a riconsiderare criticamente anche gli ambienti intellettuali più preparati. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il femminismo iniziò dunque a battersi non solo per la sepoltura della femminilità tradizionale ma anche per un progetto di società completamente diversa, più attenta ai ritmi e alla sensibilità delle donne. Accentuando l’aspetto del separatismo e delle differenze, le femministe hanno contribuito attivamente ad affermare il riconoscimento delle differenze sempre più presenti nelle società contemporanee, qualunque esse siano (di classe, religione, etnia, preferenze sessuali).
Verso la fine degli anni Sessanta il cinema sperimentale inizio a manifestare un maggiore interesse verso forme e strutture non narrative. Contrariamente ai registi underground affascinati dallo scandalo, i cineasti strutturalisti seppero coinvolgere il pubblico attraverso un approccio più intellettuale, attento ai dettagli più minuti e capace di interrogare lo spettatore sul senso complessivo del film. Film come Wavelength (r. di Michael Snow, Canada, USA, 1967) e Nostalgia (r. di Hollis Frampton, USA, 1971) invitano all’autoriflessione cristallizzando i concetti espressi negli stessi procedimenti formali. In questo modo il pubblico ha la possibilità di comprendere la propria esperienza spettatoriale, in altre parole “guarda se stesso guardare”. Visto da questa prospettiva si potrebbe affermare che il cinema strutturalista si poneva l’obiettivo di analizzare i meccanismi della coscienza umana, i modi in cui la mente costruisce e percepisce i modelli. Questi presupposti condussero tale tendenza verso un sempre maggiore decostruzionismo linguistico atto a svelare l’artificio illusorio su cui si basava il cinema più tradizionale. Proprio in questo ambito le donne esercitarono un ruolo di primo piano. Le due registe più importanti del periodo furono Yvonne Rainer e Chantal Akerman, le quali riuscirono a coniugare le sperimentazioni acustiche e l’attenzione strutturalista al dettaglio con una narrazione certamente scarna ma mai del tutto assente: in Film about a woman who… (r. di Y. Rainer, USA, 1974) è evidente l’influenza esercitata dal melodramma hollywoodiano – questioni amorose, drammi identitari, rapporti fra donne – ma le trame rimangono frammentarie e le relazioni tra i personaggi appena accennate. Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (r. di C. Akerman, Belgio, 1975) racconta in 225 minuti tre giorni della vita di una casalinga che vive con il figlio e si prostituisce ricevendo uomini in casa. Sebbene il rigore stilistico e il gusto per la “sottrazione” ricordi Bresson, Akerman lo manifesta con un intento critico sul piano socio-politico tale da restituire dignità sia estetica che ideologica al lavoro domestico.
2. Laura Mulvey. Piacere visivo e cinema narrativo
La reputazione accademica di Laura Mulvey è legata soprattutto a Visual pleasure and narrative cinema (Piacere visivo e cinema narrativo) l’intervento che determinò la nascita della Feminist film theory (d’ora in avanti FFT). Pubblicato nel 1975 sulla rivista inglese Screen, il saggio di Mulvey va collocato all’interno di tre linee di ricerca distinte ma comunicanti: la teoria psicoanalitica del singolo film nonché dell’apparato cinematografico nel suo complesso, la teoria femminista del cinema e, infine, la teoria del cinema d’avanguardia.
Per cominciare è doveroso riconoscere la notevole influenza esercitata dalla cosiddetta “scuola francese”. In Francia, all’interno della teoria del film, già a partire dagli anni Settanta la discussione semiotica iniziò ad essere influenzata da questioni legate alla psicoanalisi come la scopofilia, il voyerismo, il feticismo, dalla concezione dello stadio dello specchio introdotto da Jacques Lacan, dal simbolico e dall’immaginario. Tutte questioni che, come vedremo, susciteranno grande interesse presso la FFT. I teorici francesi erano particolarmente affascinati dalla dimensione psichica del mezzo filmico e avevano l’intenzione di spiegare il potere che aveva il cinema nei confronti dei sentimenti umani. Tuttavia la teoria francese era scissa in due poli distinti; da un lato chi analizzava le peculiarità dell’apparato cinematografico nel suo complesso (Jean-Louis Baudry, Christian Metz, Jean-Luis Comolli), dall’altro chi si concentrava sul funzionamento del singolo film (Raymond Bellour). Dunque se è vero che in entrambi i casi la psicoanalisi rimaneva la griglia concettuale preferita, entrambe le posizioni si rivelavano mai del tutto soddisfacenti; se Baudry e Metz vedevano il dispositivo cinematografico come un apparato dotato di un’ontologia intrinseca in grado di definire automaticamente un effetto ideologico di base, Bellour attraverso l’analisi specifica dei codici linguistici propri dell’industria hollywoodiana non considerava il “fatto” cinematografico nel suo complesso. Ed è qui che il contributo di Mulvey si rivela fondamentale e di grande valore; il suo intervento ha il merito e l’originalità di aver trovato un ideale punto di incontro tra il funzionamento dell’apparato cinematografico (le sue potenzialità, i suoi limiti) e il funzionamento del film hollywoodiano. Proponendo una teoria psicoanalitica che sia al tempo stesso del film classico, dell’apparato e dell’esperienza spettatoriale, Laura Mulvey adotta il concetto di sguardo come chiave che consente di entrare nel complesso sistema di scambi che agisce durante la fruizione del testo filmico. Se è vero che il cinema classico fonde i tre sguardi su cui è costruito in uno soltanto, suturando in questo modo lo spettatore allo schermo in una specie di posizione trascendentale che Mulvey non rimprovera a Baudry, è anche vero che lo spettatore per Mulvey non è suturato all’immagine in quanto tale, bensì allo sguardo diegetico. In questo modo il cinema hollywoodiano, l’industria che ha dominato incontrastata il mercato mondiale dall’avvento del sonoro, inscrive tramite strategie formali altamente codificate la differenza sessuale che in una società dominata dalla disparità di genere non può che replicare il rapporto di subordinazione del femminile verso il maschile.
In Visual pleasure and narrative cinema Laura Mulvey afferma che il cinema offre una quantità di possibili piaceri basati sull’attivazione di due pulsioni del guardare contraddittorie. Il voyerismo e il narcisismo. Nella scopofilia voyeristica il soggetto prova piacere nell’utilizzare un’altra persona come oggetto di stimolazione sessuale attraverso la vista. Il piacere narcisistico invece deriva dall’identificazione (intesa come appropriazione) del soggetto con l’immagine, tramite la fascinazione provocata dal riconoscimento del proprio simile. In termini cinematografici diremo che il voyerismo implica una separazione dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto rappresentato sullo schermo (scopofilia attiva) e il narcisismo esige l’identificazione dell’io con l’oggetto sullo schermo. Mentre la prima è una funzione degli istinti sessuali la seconda è legata all’autoconservazione tramite una proiezione del corpo al di fuori di sé come io ideale. Ma in un mondo governato da un ordine di tipo patriarcale il piacere dello sguardo è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile. Secondo Mulvey, lo sguardo maschile proietta le sue fantasie sulla figura femminile che è definita di conseguenza. Nel ruolo tradizionalmente riservatole, la donna è simultaneamente guardata e mostrata, con un aspetto codificato per ottenere un impatto visivo di tipo erotico. In altre parole, Mulvey ritiene che il cinema classico è costruito per il solo piacere dello spettatore maschile; se l’identificazione è il riconoscimento di sé nell’immagine del proprio simile è evidente che, poiché è il personaggio maschile a dominare la scena con l’azione e con lo sguardo, solo l’uomo in sala potrà identificarsi con l’eroe e, unendo il proprio sguardo a quello del personaggio, sarà in grado di “possedere” la donna. Ma in termini psicoanalitici la figura femminile non rappresenta solo una fonte di piacere visivo. La sua mancanza di un pene implica una minaccia di castrazione, dunque un non-piacere. Così la donna come icona, rappresentata per lo sguardo e il conseguente godimento degli uomini, minaccia sempre di evocare l’angoscia che in origine significava. L’inconscio maschile ha quindi due alternative per sfuggire il pericolo della castrazione: demistificare l’enigma femminile investigando la donna o rinnegare del tutto la castrazione trasformando la figura in feticcio. La prima alternativa, il voyerismo, ha connessioni molto forti con il sadismo; il piacere sta nell’accertare la colpa associata alla castrazione, riaffermare il controllo e soggiogare la persona colpevole con il perdono o con la punizione (una strada esemplificata dalle inquietudini del genere noir o da registi come Alfred Hitchcock). Risulta evidente che l’efficacia del sadismo risiede negli sviluppi narrativi. Tutto dipende dal far accadere qualcosa, provocando in modo violento il mutamento dell’altra persona attraverso uno scontro di volontà e forza che può concludersi soltanto con la vittoria dell’uomo e la sconfitta della donna. La variante sadica esige dunque un tempo lineare; un principio, uno sviluppo e una fine. La scopofilia feticistica invece può benissimo esistere al di fuori del tempo lineare, poiché la pulsione erotica è basata unicamente sullo sguardo. In questo modo la bellezza fisica dell’oggetto viene elevata e resa soddisfacente di per se stessa. Come vedremo il cinema di Josef Von Sternberg offre molti esempi di pura scopofilia feticistica.
Come spiega Laura Mulvey alla fine di Visual pleasure and narrative cinema solo sperimentando nuove forme di linguaggio è possibile reagire a queste ossessioni e a questi presupposti. Il funzionamento e le strategie del women’s cinema devono quindi collocarsi all’interno di un contesto politicamente ed esteticamente d’avanguardia che nelle speranze di Mulvey sia in grado di liberare lo sguardo della macchina da presa nella sua materialità nel tempo e nello spazio e lo sguardo del pubblico nella dialettica e nel distacco appassionato. Questa speranza non tardò a manifestarsi in alcuni film che, combinando l’aspetto narrativo con tecniche più associabili allo strutturalismo e al decostruzionismo, si prefiggevano il compito di criticare le ideologie. In Thriller (r. di Sally Potter, Regno Unito, 1979) la trama mystery è un pretesto per sondare i fondamenti ideologici del mito e della tradizione. La stessa Laura Mulvey dirigerà insieme all’allora marito Peter Wollen una serie di film governati da un registro teorico essenzialmente brechtiano. In Riddles of the sphinx (Regno Unito, 1977) la soggettività femminile si forma proprio in una condizione di separazione dagli uomini, attraverso il confronto e il dialogo con altre donne.
1 Laura Mulvey, Visual pleasure and narrative cinema
3. L’identificazione transessuale
Il successo di Visual pleasure and narrative cinema non era affatto scontato. Il contributo di Laura Mulvey avviò un acceso dibattito attirando anche molte critiche da parte delle studiose femministe, le quali non accettarono l’idea che il cinema hollywoodiano non permettesse l’inclusione del piacere e del desiderio femminile. In effetti, nonostante l’innegabile importanza del contributo di Mulvey, bisogna riconoscere che la sua posizione non basta per spiegare il cinema hollywoodiano tout court. In quegli anni la cosiddetta teoria del progressive text promossa da Pam Cook e Claire Johnston proponeva una visione ben diversa; se per Mulvey il cinema hollywoodiano è “ontologicamente” patriarcale, per Cook e Johnston non è affatto un sistema chiuso, piuttosto si tratta di una forma che potrebbe benissimo essere scardinata dall’interno attraverso strategie in grado di sovvertirne i codici. Questa posizione decisamente meno respingente diede l’opportunità a molte studiose come Mary Ann Doane, Elizabeth Cowie, E. Ann Kaplan e altre di cercare esempi di emancipazione e/o trasgressione all’interno del modello classico. I generi cinematografici che meglio si prestarono a queste interpretazioni furono il noir, il melodramma e il woman’s film.
La stessa Mulvey attraverso una revisione parziale del suo pensiero è tra le prime a sostenere che il rapporto tra soggetto e desiderio/piacere è in realtà caratterizzato dalla molteplicità. Nel saggio Afterthoughts on “Visual pleasure and narrative cinema” inspired by King Vidor’s Duel in the Sun (1946) datato 1981 l’autrice investiga modalità di visione differenti da quelle analizzate nel primo intervento. Se le strategie stilistiche e narrative proprie del cinema classico sono conformi alle dinamiche psichiche del soggetto così come le concepisce la psicoanalisi freudiana è dunque possibile che davanti allo schermo la donna regredisca alla fase pre-edipica, periodo in cui la bambina, come il bambino, ha una sessualità attiva: la spettatrice può in questo modo identificarsi anch’essa con il protagonista maschile riscoprendo quell’aspetto perduto della propria identità sessuale. Il secondo intervento di Mulvey riconosce dunque un’effettiva dissimmetria tra il soggetto guardante, la spettatrice, e il genere della pulsione scopica, di tipo maschile. In questo modo l’identificazione transessuale diventa un’abitudine che diviene facilmente seconda natura. Tale argomentazione alimenterà in modo sostanziale la riflessione all’interno della FFT che riconoscerà nell’esperienza della spettatrice e dello spettatore una moltitudine di posizioni e desideri.
Tra gli interventi più interessanti emersi a partire dagli anni Ottanta, quelli di Tania Modleski sul cinema Hitchcockiano e in particolare su Rebecca (USA, 1940) e l’originale studio di Gaylyn Studlar sul concetto di masochismo che ci consente di affrontare più in profondità la complessità del “ruolo della donna” all’interno della cultura patriarcale.
4. Tania Modleski. Rebecca e il complesso d’Elettra
All’inizio del suo saggio su Rebecca di Alfred Hitchcock Tania Modleski mette subito in chiaro la fragilità del pensiero di Bellour (condiviso inizialmente da Mulvey) secondo il quale ogni narrazione hollywoodiana è una drammatizzazione della fase edipica maschile, dell’ingresso dell’uomo nell’ordine sociale e simbolico. Nel respingere questa tesi Modleski non vuole certo sostenere che esista una Hollywood “progressista”, tuttavia sostiene che quando un film pone il percorso di una donna al centro dell’attenzione sollecitando direttamente l’interesse del pubblico femminile emergono molteplici differenze che bisogna prendere in considerazione. In tal senso, sostiene Modleski, il primo film hollywoodiano del “maestro del brivido” è di innegabile interesse. In Rebecca una giovane donna sposa un ricco e affascinante vedovo, dopo che la prima moglie, Rebecca appunto, è morta in circostanze misteriose. Riassunto in questi termini il film potrebbe sembrare un tipico esempio di women in distress, filone cinematografico ispirato al romanzo gotico in cui la protagonista indifesa si ritrova imprigionata in un matrimonio pericoloso. In realtà il ricco e misterioso Maxim De Winter (interpretato da Laurence Olivier) pur essendo coinvolto nella morte di Rebecca non è affatto un antagonista. Il film di Hitchcock nel raccontare il processo di maturazione dell’eroina, ci mostra una donna che deve venire a patti con una forte figura paterna, in un certo senso rappresentata dallo stesso Maxim, e diverse incarnazioni della figura materna. In effetti, in Rebecca l’eroina (interpretata da Joan Fontaine) esaudisce il sogno archetipico femminile di sposare il padre che l’ha liberata dalla tirannia di una donna più anziana, ossia la madre. Ma nel far ciò deve confrontarsi con la donna che per prima ha posseduto suo padre e che può arrivare a possederlo nuovamente. Il cosiddetto complesso d’Elettra, a lungo screditato, è quindi secondo Modleski un enunciato fondamentale per comprendere il significato del percorso dell’eroina e i suoi rapporti con la figura maschile.
Nel film di Hitchcock però emerge un altro elemento importante; il desiderio delle donne per altre donne. Come anche Freud dovette riconoscere, la teoria secondo cui le bambine vivono la madre innanzitutto come oggetto di rivalità non corrisponde a verità. Se l’importanza del desiderio precoce della bambina verso la madre non è più in discussione è anche vero che in una società dominata dalla legge del padre all’eroina non resta altro che sopprimere la madre e con essa una parte di sé. Ma se da un lato Rebecca mette in scena il tentativo dell’eroina di separarsi dalla madre per legarsi a un uomo è anche vero che ci mostra le difficoltà di una donna in questo tipo di impresa. Inoltre, sostiene Modleski, il ruolo antagonistico riservato al personaggio di Rebecca si pone in parziale contrasto con la teoria postulata da Mulvey secondo la quale nel cinema hitchcockiano la donna trasgressiva è scrutata e demistificata dall’uomo nel corso della narrazione. In Rebecca, osserva Modleski, la donna sessuata non si vede mai, nonostante la sua presenza sia evocata con insistenza lungo tutto il film; in questo modo è praticamente impossibile per qualsiasi uomo raggiungere il controllo su di lei attraverso i consueti meccanismi del cinema classico. D’altro canto è anche vero che nel corso della narrazione Rebecca è sottoposta a brutale svalutazione. Si scopre che Maxim la odiava; le viene attribuita asprezza e indecenza. Di più: il film la punisce per la sua sessualità sostituendo al bambino che lei pensava di attendere un tumore che, secondo la credenza popolare è la malattia delle zitelle e delle ninfomani. Da questo punto di vista, l’ultima parte del film può essere interpretata come l’ennesima versione del mito della sconfitta del matriarcato ad opera di un ordine patriarcale consolidato. E tuttavia, come ha illustrato Modleski, le numerose resistenze che interferiscono con il discorso filmico rendono Rebecca un film di indubbio interesse per questo spazio di indagine.
2 Tania Modleski, The Women Who Knew Too Much: Hitchcock and Feminist Theory, New York & London, Methuen, 1988
5. Gaylyn Studlar. Cinema e masochismo
Ancor più di Modleski, le considerazioni di Gaylyn Studlar si pongono in netta opposizione agli assunti di Laura Mulvey accusata di aver ridotto il campo delle questioni inerenti al posizionamento del soggetto e alle forme di enunciazione del cinema narrativo classico. Secondo Studlar l’approccio femminista-psicoanalitico promosso dalla FFT non prendeva in considerazione la complessità del “posto della donna” all’interno del patriarcato perché ancora troppo soggetta a un modello freudiano-lacaniano-metziano. Pur non screditando del tutto le teorie dominanti Studlar propone un modello alternativo in grado di mettere in seria discussione alcuni degli assunti che determinavano le tendenze correnti.
Stimolata da questioni già affrontate in ambito clinico (Michael de M’Uzan), psicoanalitico (Theodore Reik) e filosofico (Gilles Deleuze) Studlar concepì una vera e propria estetica del masochismo, perversione a suo parere fin troppo marginalizzata nell’analisi del cinema narrativo classico. Com’è noto il paradosso dell’alleanza masochistica è la sovversione delle posizioni patriarcali previste di potere/mancanza di potere, padrone/schiavo, il cui massimo paradosso è la disponibilità dello schiavo (del maschio) a conferire il potere alla femmina. Secondo questa linea di pensiero è assurdo equiparare masochismo e sadismo in quanto quest’ultimo è inequivocabilmente legato a un impulso misogino criminale che non viene soddisfatto oggettificando o demistificando le donne, ma distruggendole. Nel masochismo la donna è invece una figura estremamente potente, idealizzata, pericolosa e confortante allo stesso tempo. La distruzione sadiana della femminilità è così sostituita con la feticizzazione, con il disconoscimento idealizzante del masochismo. Secondo Studlar non c’è alcun vantaggio nel lasciare che il modello “sadico” teorizzato da Mulvey e basato sugli studi di Freud sulla fase fallica trascuri lo stadio pregenitale della vita psicosessuale inequivocabilmente determinante nello sviluppo del desiderio. Nell’analizzare la componente masochistica nel soggetto è dunque fondamentale comprendere l’importanza assunta dalla madre durante la fase pre-edipica: durante il cosiddetto periodo orale la madre è vista come una figura ambivalente per il bambino essendo contemporaneamente oggetto d’amore e agente di controllo. La madre orale quindi è considerata dal bambino insieme sacra e profana, amorevole e respingente, mobile in modo frustrante eppure essenza della stabilità ritmica e della immobilità. L’ambivalenza della separazione/unione dalla madre si formalizza nella ripetizione e sospensione masochistica ma è un’ambivalenza condivisa da tutti gli esseri umani. In altre parole, la visione che il bambino/a ha della donna potente, amata ma allo stesso tempo minacciosa non viene cancellata completamente dagli stadi successivi della vita – incluso il passaggio del maschio attraverso il complesso di castrazione. Secondo Studlar il cinema può quindi evocare benissimo piaceri spettatoriali separati dalle questioni analizzate da Mulvey (castrazione, differenza sessuale e mancanza femminile).
Le speculazioni teoriche di Studlar sono spesso accompagnate da analisi di film che nel tempo sono diventati il centro di un sempre maggiore interesse. In particolare i film di Josef Von Sternberg con la madre orale incarnata nella presenza seducente e ambivalente di Marlene Dietrich le offrono l’opportunità di avvalorare la sua tesi. Tra i sei film della coppia Sternberg/Dietrich quello che maggiormente ha ispirato gli studi di Studlar e di altre autrici è senz’altro Blonde venus (Usa, 1932). Si potrebbe quasi dire che ogni nuova tendenza è passata attraverso l’analisi di questo film, che rappresenta un caso ideale per testare la complessità delle forme di enunciazione di certo cinema classico. L’appeal del film deriva da una serie di elementi degni di nota; le forme della performance di Marlene, la struttura narrativa ellittica al posto della più convenzionale linearità, la plasticità delle immagini al posto dell’abituale dinamismo, il rapporto tra il femminile e l’animalità esotica. Secondo Studlar la struttura ellittica e ripetitiva del film è antitetica al modello classico di causalità e va inquadrata come una soluzione formale inerente all’estetica del masochismo, fondato sulla sospensione anziché sull’appagamento del desiderio. Ma accanto allo scenario fantasmatico, il masochismo mette in scena questioni connesse alla bisessualità; attraverso uno scambio continuo dei ruoli di potere i personaggi di Von Sternberg hanno proprietà psichiche parziali e frammentate in grado di rendere reversibili le posizioni soggettive. In Blonde venus la molteplicità di ruoli affidati a Marlene, prima madre, poi seduttrice e, infine, performer esibizionista, offre alla spettatrice la possibilità di identificarsi con più archetipi femminili. In questo meccanismo ambivalente è evidentemente il più familiare modello edipico ad essere messo in discussione; in altre parole la funzione paterna non viene solo marginalizzata, ma deleuzianamente dichiarata irrilevante.
3 Gaylyn Studlar, Masochism and Perverse Pleasures of the Cinema, in Bill Nichols (a cura di), Movies and Methods II, Berkley and Los Angeles, University of California Press, 1985
4. Ibidem